domenica 1 maggio 2011

MOSTRA / Alberto Savinio - La Commedia dell'Arte


Fino al 12.06.2011
ALBERTO SAVINIO
LA COMMEDIA DELL’ARTE
a cura di Vincenzo Trione
Milano, Palazzo Reale

Intellettuale fine e vivacissimo
fu un artista in perpetuo movimento.
Le ho fatte tutte. Le sto facendo tutte. Le farò tutte.
Certuni mi domandano perché.
Rispondo: per eludere la morte”.
- Alcesti di Samuele, Adelphi -

UN ATTO DI NON RINUNCIA VOLONTARIO  /  Savinio e il poliedrico mondo dell'arte
di Iole Natoli
Nessun artista nasce e si forma, sotto il profilo spirituale e tecnico, al di fuori di una comunità che lo accoglie. L’ambiente familiare di Andrea Francesco Alberto de Chirico, che a datare dal 1914 assumerà lo pseudonimo di Alberto Savinio, è connotato da alcuni tratti specifici
Il padre Evaristo, ingegnere e costruttore di linee ferroviarie in Bulgaria e in Grecia, sposò la genovese Gemma Corvetto. Nel 1988 vide la luce a Volos Giorgio e nel 1891, a pochi mesi dalla morte della primogenita Adele, nacque Andrea ad Atene, città in cui i De Chirico si trasferirono successivamente da Volos. A seguito della morte del padre, nel 1905, il rimanente della famiglia abbandonò Atene per Monaco, preludio di ulteriori spostamenti con soggiorni più o meno lunghi a Parigi, a Ferrara, a Milano, a Roma.
La giovinezza di Giorgio e di Andrea fu contrassegnata da una mobilità estrema e da un pullulare di contatti culturali, che agendo come fucina permanente legarono a filo doppio i due fratelli, non a caso ribattezzati i Dioscuri. Solo per questioni familiari subite si allentò, dopo gli anni Trenta, il sodalizio; ma non fu come si potrebbe supporre la pittura, che unì sin dal primo momento i due artisti. I ragazzi ebbero formazione curricolare diversa.
Se Giorgio s’iscrisse al politecnico di Atene, proseguendo i suoi studi artistici a Monaco, Andrea scelse invece come campo specifico la musica. Frequentò presso il conservatorio di Atene i corsi di pianoforte e composizione, dedicandosi poi allo studio del contrappunto a Monaco sotto la guida di Max Reger.
Sembrerebbe di poter cogliere qui una delle istanze primarie di Savinio. Solo tre anni di differenza con Giorgio e un oscillare morbido e armonioso tra il desiderio di una comunione costante e il bisogno profondo di distinguersi. L’esigenza non assume una direttrice antitetica, non è matrice di traumi e opposizioni, genera invece un lavoro di ricerca, un’analisi delle istanze dell’io, una sperimentazione a largo spettro, solare, ardita, critica, costante.
E tuttavia sarebbe riduttivo confinare al relazionarsi e al distinguersi dall’ingombrante fratello maggiore il vagabondaggio interiore di Andrea/Alberto. Il susseguirsi ininterrotto di stimoli generava già da solo in Savinio una spinta inesausta alla ricerca. Il mutamento è coevo alla crescita. Lo scorrere di ambienti e paesaggi è alla radice della speciale cifra pittorica, a cui l’artista approda alquanto tardi, e ne percorre tutt’intera l’opera.
Critico, saggista, narratore, musicista, soggettista, drammaturgo, pittore, scenografo, regista, Savinio gioca a sbalordire se stesso. In più di un campo si rivela anticipatore. In pittura mediante la contaminazione, scrive Vincenzo Trione nel catalogo, destabilizza «i sistemi percettivi e comunicativi», giungendo per tale via «ad anticipare procedimenti che saranno sperimentati, negli anni settanta, da un artista pop come Roy Lichtenstein, celebre per le sue riscritture dalle strips». L’enigmatica stasi atemporale, che si respira nelle opere di Giorgio, si fa sottile gioco umorale in Alberto, che attinge incessantemente dalla memoria, da alcuni pittori prediletti, dai materiali più incongrui e disparati, da vecchie foto e stampe popolari. Diversamente da quel che ne pensa il fratello, la tecnica non gli appare sostanziale. Per lui elemento cruciale è l’intuizione, di cui la manualità è solo al servizio.
Per taluni, ha un atteggiamento crociano. Analizzando tuttavia i suoi lavori, vengono in mente gli scritti sulla psicologia dell’arte di Rudolf Arnheim, che con Art and Visual Perception, apparso nel 1954 a Los Angeles, pone le basi per una teoria della visione in cui il concetto è un atto percettivo primario.
Sicuramente nelle opere di Savinio non vi è soltanto un bilanciamento di forme, di pesi, di spinte varie o di attrazioni esercitate permanentemente dal centro, né le teorie di Arnheim, d’altronde, hanno mai escluso la presenza di significanti e di significati dall’arte; ne hanno fornito un’analisi interna, basata sulle strutture percettive.
Osserviamo il dipinto En visite (1930). L’espressione della dama seduta a sinistra è sottomessa e contrasta con quella dominatrice dell’altra, la cui invadenza trasversale del campo ha per rinforzo lo spigolo obliquo delle pareti posteriori inclinate. Il becco da pellicano della prima, che scende pesantemente verso il basso come un’enorme goccia che si allunga, è bilanciato dalla retrazione tortuosa del lungo collo della seconda dama, espediente che consente all’artista di allineare con intento unitario quel capo sul piano della testa della prima, che si trova in posizione arretrata. Ne deriva una grottesca concezione di visita, in cui ciascuno dei due soggetti è presente pur rimanendo sostanzialmente da solo.
Non vi è traccia di vuoti nel dipinto; ogni spazio è rigorosamente riempito, trattato con segmentazioni e angolature improbabili, con richiami di texture e di colori, in un pattern pittorico perfetto che esprime compresenza e solitudine.
In Roger et Angélique (1931), la donna è atteggiata come un’Eva nel paradiso terrestre. Il suo sguardo rivolto lontano ha qualcosa di anticipatore e contemplativo. L’uomo, ritratto con una testa di gallo che termina in un collare di penne sul petto, appare stupefatto e instupidito.
Dietro di lui, sulla sinistra, in basso, è acquattato un oscuro pesce mostro, di cui vediamo solamente un occhio. Ritornerà più grande in Ulisse e Polifemo (1932) ma qui è piccolo, osserva e non incombe, benché il suo aspetto non sia certo amichevole. L’imponente soggetto maschile, che impugnando vigorosamente un pugnale sembra cantare a becco aperto all’alba, è reso dunque vanaglorioso e sciocco, messo in scacco, malgrado le poderose dimensioni, dall’astuto nascondimento del mostro.
La trattazione deformante dei volti smentisce la compostezza seriosa delle pose nel gruppo umano di Una strana famiglia (1947), creando uno sberleffo lungo un arco che irride le diagonali mani-volti.
In Fedeltà (1949) un orologio che segna la medesima ora soppianta entrambi i visi della coppia. Le punte delle lancette, poste a 90° e in obliquo, sospingono le figure verso l’alto, bilanciando le grosse mani dei due che creano fissità, centralità verso il basso, saldezza.
Ritroviamo le spinte strutturali anche in alcuni dipinti di oggetti nei quali regna a volte la catasta, in una sorta di conclamata entropia (La nave perduta, 1926; Monument, 1929), o allorché tali oggetti-giocattoli, lungi dal porsi come elementi a sé stanti, dialogano con interni e personaggi, trascorrendo di là di una finestra (Prometeo, 1929), o sostanziando un qualche mondo onirico (Le Songe d’Achille, 1929).
Sul finire del 1929, si affaccia sulla rivista dadaista Bifur uno scritto visionario e surreale di Savinio, Introduction à une vie de Mercure”, pubblicato nel 1945 in cinquecento copie dall’editore Fontaine, a cura dell’amico Parisot. Il racconto è un’esplosione di immagini fantastiche, un susseguirsi di mutamenti vertiginosi e impensabili, degni dei migliori film d’animazione dei nostri giorni. Tra i personaggi di quelle pagine un console, che - scrive Savinio - aveva prestato servizio in gioventù “nella principale di quelle Isole degli Oggetti, i quali, pur non figurando in nessun atlante, (…) nondimeno ne fanno un arcipelago a tal punto maliardo e profumato di effluvi poetici che al confronto le Cicladi e altri luoghi riconosciuti di pubblica bellezza sono solo una bazzecola” (Introduzione a una vita di Mercurio). Quelle “isole meravigliose, che innalzano sul Mediterraneo le loro piramidi multicolori, i loro cubi variopinti come giocattoli per re pazzi, le loro calamite simili a minuscoli archi di trionfo” solcheranno in talune opere i cieli (La sposa fedele (1929), riempiranno di sé tutta la tela (L’île des charmes, 1928), approderanno sopra una radura (Objets abandonnés dans la forêt, 1928), giaceranno seminascosti dagli alberi (Nella foresta,1930), somiglieranno a viventi stilizzati, affioranti o semisommersi dalle acque (Atlantide, 1930-31).
Questi oggetti sono mitici anch’essi e non soltanto per alcuni riferimenti dei titoli o per la forza primigenia che esprimono, come i vibranti oggetti-creature crinite della selvaggia Bataille de Centaures (1930), ma per la loro strategia di assunzione, che li apparenta con evidenza agli dei, presenti in vario modo nelle opere.
Eroi e divinità del mondo greco possono essere monumentali ed incombere, come la dea della Nascita di Venere (1950), comparire in un’Annunciazione (1932) occhieggiando da una qualche finestra, collocarsi in funzione di doppio come la testa-reperto del nume in Le rêve du poète (1927), o dominare le scenografie allestite, come l’occhio nel frontone del tempio della maquette di Oedipus Rex (1948). Attraversano anche la scrittura, resi umani da un loro desiderio, come vediamo accadere a Mercurio, o, se umani, iscritti in una dimensione indipendente come l’Eroe di Capitano Ulisse, che, ricusando di volere ancora rispondere ai pressanti richiami di Minerva, si sottrae al potere della divinità. Su tutto regna, sublime, l’ironia.
Perché Alberto Savinio si volse alla pittura relativamente tardi? Sembrerebbe che, a partire dall’inizio, abbia inteso volontariamente esperire tutti quanti i settori praticabili utilizzando la sua versatilità creativa, prima di accogliere nella necessaria pienezza la sua stessa natura visionaria, quasi volesse differenziarsi da Giorgio, e al contempo come se, nel profondo, temesse di poter fare dell’arte visiva, così potentemente congeniale, la sua unica forma espressiva. Se così non fosse, apparirebbe quasi inconcepibile che, dopo essersi posto nel campo musicale come il fondatore di una specifica corrente, il Sincerismo, dopo aver ottenuto segnalazioni positive anche all’estero per le proprie composizioni musicali, il musicista abbia deciso di azzittirsi per molto tempo. “Per paura”, scriverà in Scatola sonora, per “non cedere totalmente alla volontà della musica”. Per non cedere, dunque, a qualcosa che sentiva come voce intima, ma non al punto di potersi far dominare da lei senza perdere un elemento primario di sé, senza perdere quell’elemento specifico che la pittura gli restituirà, invece, dopo.
Della musica così scrive ancora nella “giustificazione dell’autore”, contenuta in Capitano Ulisse:
“Musicista in origine, la musica mi è venuta a fastidio. Ho sperimentato tutte le possibilità dell’ottava. Restava l’illusione di un’ottava più vasta, più sottile. Ma i quarti di tono sono fuori della musica, fuori del mondo. Una tremenda sete mi ardeva di nuove porte aperte. Ma il quarto di tono non è una porta: è un buco onde si casca nel vuoto. La musica perde il suo sguardo di musica, si squaglia in una sonorità opaca che dà la nausea e il capogiro, in un gioco da sordomuti, in un passatempo da marziani che vivono nel gelo di un pianeta vecchissimo”.
Abbandona quindi con decisione repentina la musica per non cadere inesorabilmente nel vuoto, per non perdersi in un gelido nulla. Troverà dopo tempo la pittura, che è essa stessa colore e calore, è la luce formante del Partenone fornitagli dalla Grecia dell’infanzia, da quella Grecia la cui monumentalità biancheggiante ha rivisto nelle architetture-copia di Monaco. Quella luce fisica e spirituale, che egli porta da sempre negli occhi, lo indurrà ad arrivare al paradosso di coniugare fisicità e astrazione, attraverso l’approccio visivo e materializzante del gioco, che si fa mnemonico, percettivo, relazionale. Non dunque la ricerca del concetto cui giungere per semplice disarticolazione del concreto, ma l’accostamento liberamente consapevole di reperti, assunti per continui spiazzamenti in compresenze inverosimili e inedite. Sono giochi che non tendono al demoniaco, non pescano nel magma dell’inconscio per trarne in superficie la lordura, tema fortemente presente in Dalí; l’assurdo sarà, in Savinio, gesto mitico. Da questa strada, ancora nel 1915 rifugge. Abbandonata per un decennio la musica, si rituffa nel campo della letteratura. Savinio è artista dall’intelligenza assai fertile e l’intera sua produzione è pregevole. L’arte per lui è creazione libera e alta, non può mai tramutarsi in una gabbia; il nomadismo è un’esigenza primigenia e perenne. Solo il limite posto dall’insufficienza del tempo e delle forze gli impedirà di praticare altre forme.
«Io ho chiaramente sentito, ho chiaramente capito», scrive in La mia pittura, «che quando la ragione d’arte di un artista è più profonda e dunque “precede” la ragione singola di ciascun’arte, quando l’artista, in altre parole, è una “centrale creativa”, è stupido, è disonesto, è immorale chiudersi dentro una singola arte, asservirsi alle sue ragioni particolari, alle sue ragioni speciali». Porsi al di sopra d’ogni specifica arte, per garantire la propria individualità multiforme, ha dato vita in Alberto Savinio a un percorso di lucida interezza.



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