martedì 30 aprile 2013

SOCIETÀ E POLITICA / L’attentato di Roma dinanzi a Palazzo Chigi


Quando il SOLO REFERENTE rimasto è il vasto PUBBLICO
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di Iole Natoli 
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Si sono dette e scritte molte cose a seguito dell’attentato compiuto il 28 aprile 2013 da Luigi Preiti, nel tentativo di dare una collocazione credibile all’evento.
È uno squilibrato, non lo è; è colpa dell’antipolitica, no, è colpa della politica di questi anni; ci sono trame oscure, no, non ce ne sono, ma perché mai avrebbe dovuto farlo se non ci fossero dietro dei mandanti? E giù ancora altre ipotesi.


Comprensibile lo spaesamento e l’affanno nel cercare di trovare una traccia, un po’ meno la distrazione sulle modalità e le parole pronunciate dallo stesso attentatore, che conducono al cuore del problema.
Luigi Preiti non ha infatti nascosto la sua intenzione di farla finita, al punto che, non essendo riuscito a concludere col suicidio l’intero progetto, ha gridato “Uccidetemi voi!” (o qualcosa di analogo) ai Carabinieri.
Occorre invece partire proprio da lì, dall’intenzione a lungo covata di uccidersi. Un’idea che era maturata non nella mente di un malato terminale che vuol risparmiarsi le sofferenze finali, che esige per sé una morte dignitosa e dunque la circoscrive a se stesso e cerca di affrontarla con coraggio, ma in quella di un soggetto che, per uccidersi, PRIMA deve uccidere altri, perché per lui altrimenti quel gesto non possiede lo spessore di un senso.
Si possono elencare molti fatti che di certo hanno giocato un ruolo traumatico nella vita di questo quarantanovenne di Rosarno, ma c’è un dato che non va sottovalutato. A Preiti infatti piaceva troppo giocare. Era stato proprio questo motivo, a quanto pare, a incrinare il rapporto con la moglie, sino a produrre la separazione e la perdita della convivenza col figlio, a cui peraltro non poteva provvedere economicamente, a causa della mancanza di lavoro.
Disoccupazione che non aveva però interrotto quell’infausta dipendenza dal gioco. A ben vedere gli affetti familiari, di cui dopo avrà certamente patito la mancanza, non erano stati sufficienti all’epoca per bloccare una deriva pericolosa, quella in cui ci si affida ad altro da sé nel tentativo di sfuggire a se stessi nella ricerca d'una gratificazione immediata, cui approdare con qualche   vincita sbalorditiva.
Sbalorditiva, come la reazione prodotta poi da quel gesto, compiuto contro persone innocenti che svolgevano il loro servizio di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, al Viminale. “Volevo compiere un gesto eclatante”, ha spiegato Preiti.
In effetti, un semplice suicidio abbastanza eclatante non è. Viene liquidato molto in fretta e dimenticato come una brutta indigestione dai parenti più prossimi. Quanto agli altri, neanche se ne accorgono. Un suicidio non richiama pubblico, non è qualcosa che sciocca le persone come ad esempio le stragi nelle scuole d’America o altri avvenimenti che rimbalzano da una pagina all’altra della cronaca o irrompono nella nostra vita privata da uno schermo televisivo o da un computer, distogliendoci dagli affanni quotidiani e dando a chi non ha emozioni vivibili in proprio quelle vivibili per interposta persona, forse le uniche che possono ancora restargli.
Inoltre, se il suicidio non è una scelta di liberazione - com’è nel caso del malato terminale - ma viene vissuto come conseguenza di una serie di situazioni sociali, imputabili dunque all’esterno, allora bisognerà che paghi anche qualcun altro per quella morte che ci si deve infliggere quasi “per forza”. Un qualcun altro che assicuri grande pubblicità all’evento, generando il riscatto dall’anonimato di una vita sempre più miserevole e ridotta. Chi, allora, meglio di qualche personaggio politico, in un momento in cui gli animi sono accesi, la sicurezza per il futuro è ai minimi storici, la fiducia nei rappresentanti politici è crollata? E quale momento migliore per suscitare un vero e proprio boato di quello in cui si compie il giuramento che sancisce la nascita di un Governo, a lungo atteso - in questa forma o in altre - da quasi tutta la gente d’Italia?
L’ingresso del primo attore sulla scena prevede anche un costume adeguato, quello più adatto a ciò che non si sarà mai, ovvero un abito da uomo vicino al Palazzo del potere, un segretario, un impiegato, un giornalista; senza contare che un completo impeccabile attira meno l'attenzione altrui di un abbigliamento da presunto rivoltoso, o da scalcinato ragazzo di passaggio… non ci vuole una laurea per saperlo, anche un semplice manovale lo sa.
Ciò che Preiti non aveva previsto, nella sua pianificazione accurata, non è stato tanto l’inconveniente di non potere raggiungere i politici e di doversi “accontentare” di alcuni carabinieri che gli avrebbero forse impedito l’accesso al Palazzo: aveva sottovalutato o ignorato del tutto la persistenza tenace del duale. Uccido gli altri e me era un tutt’uno, o almeno aveva creduto che lo fosse. E invece no, perché quell’atto di suicidio desiderato ma subordinato ad altro, differito, posposto a un’esecuzione per lui insolita non essendo un assassino di professione, ha fatto risorgere l’io celatosi nella mistificazione del “noi morituri” e lo ha bloccato. Preiti allora ha invocato l’altra metà di quella unità fasulla, coloro che stavano dall’altra parte, dalla parte di quegli altri da uccidere e che lo avevano afferrato per fermarlo, chiedendo loro di ricomporre il gioco, di trasformarsi essi stessi in omicidi per far scattare la gratificazione prevista: l’abnorme spettacolarità del suo gesto che avrebbe dato un macrosignificato apparente al suo percorso ormai privo di senso.
Ora che il dimezzamento dell’atto lo pone infine a tu per tu con se stesso, non avrà molto da rallegrarsi di questo. La presa di coscienza sarà amara e nessuna strombazzata televisiva servirà ad alleviare l’angoscia. Un volto urlante, un dito medio alzato contro la folla, le masse incolonnate per le vie, ogni immagine dell’universo mediatico recente si fonderà con le immagini delle slot machine, del biliardino, dei videopoker, abbordabili oggetti fotocopia di quei premi dei telequiz tanto in voga. Oggetti simbolo di una civiltà del malessere in cui viviamo immersi sino al collo, alla cintola, o soltanto alla caviglia in ragione dell’autonomia personale; falsa cultura, che diffonde il suo marcio annichilendo gli esecutori e le vittime e della quale è sempre più urgente disfarsi.

Milano, 30 Aprile 2013

© Iole Natoli

  

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