sabato 15 giugno 2013

EVENTI e LIBRI / Patricia Scotland, Simonetta Agnello Hornby, Marina Calloni: CONTRO LA VIOLENZA DOMESTICA IN ITALIA




SIMONETTA  AGNELLO  HORNBY
con Marina Calloni

IL MALE
CHE SI DEVE RACCONTARE
PER CANCELLARE
LA VIOLENZA DOMESTICA

Feltrinelli

Pagine: 192
Prezzo: € 9,00




UNA SCOMMESSA CHE IN INGHILTERRA È REALTÀ
di Iole Natoli

Il 31 Maggio 2013 ha avuto luogo presso l’Università Milano-Bicocca la presentazione di EDV Italy, con la firma dell’accordo per la realizzazione del programma, e del libro “Il male che si deve raccontare”, le cui vendite sono destinate a finanziare il progetto di Eliminazione della Violenza Domestica in Italia.                                                    (prosegui >>)

Che non si possa arginare la violenza domestica è solo un pregiudizio culturale. L’esperienza di Patricia Scotland in Inghilterra dimostra invece che è proprio vero il contrario.
Un sodalizio nato tra due donne, che cercano di sperimentare nuove vie per giungere a risolvere un problema. Questa è l’origine non soltanto del libro, momento narrativo e informativo che rende conto di un’esperienza vissuta, ma del lavoro avviato molti e molti anni fa da due legali, entrambe attive nel settore dell’assistenza pubblica: Patricia Scotland, che fonderà in seguito la Global Foundation for the elimination of Domestic Violence (Edv) e Simonetta Agnello Hornby, autrice del prezioso volumetto che, arricchito di un contributo di Marina Calloni, docente di Filosofia politica e sociale presso l’Università di Milano-Bicocca, ha pubblicato a maggio Feltrinelli.
Il primo incontro tra Scotland e Agnello Horby si colloca a un trentennio di distanza: barrister è l’una, solicitor l’altra, le due figure che per il Legal Aid inglese si occupano dell’assistenza ai clienti nell’ambito del diritto di famiglia e dei minori.
L’impatto avuto con la violenza domestica fu per Patricia Scotland inaspettato. Mai avrebbe spontaneamente immaginato, ha dichiarato nel corso della recente conferenza di presentazione a Milano dell’Edv Italy, che potesse esistere nelle famiglie una violenza così diffusa e profonda come quella che le è accaduto di conoscere nel corso del suo impegno di avvocata.
Specularmente, mai Simonetta Agnello Hornby avrebbe supposto che qualcosa avrebbe un dì scardinato le formulazioni correnti fatte sue, in merito alla violenza familiare, prima di averne conoscenza diretta a causa del suo lavoro di legale. Significativo è il capitolo che l’autrice ha denominato “Credevo”: sei pagine di stereotipi diffusi, ribaltati dalla realtà dolorosa che irrompe e giunge netta alla coscienza, mostrando schemi tutt’affatto diversi.
Patricia Scotland è stata la prima donna nera a essere accolta

Nata a Palermo, Simonetta Agnello Hornby vive dal 1972 a Londra. Autrice di diversi libri di narrativa, di cui molti pubblicati con Feltrinelli, collabora dal 2012 con la Global Foundation for the elimination of Domestic Violence.

nel 1991 tra i Consiglieri della Regina. Nominata baronessa di Ashton nel 1997 a seguito delle diverse cariche istituzionali ricoperte, si è trovata investita dal governo laburista del compito di affrontare e di risolvere la violenza domestica, che aveva già raggiunto picchi abbastanza alti nel Regno Unito.

  Punti chiave del sistema Scotland - Edv
§  Ruolo degli Indipendent Domestic Violence Advisor (consulenti indipendenti specializzati in violenza domestica).
§  Tribunali specializzati e Multi-Agency Risk Assessment Conference (MARAC).
§  Valutazione multidisciplinare della potenzialità di rischio per le vittime ad alto rischio. (In un progetto, i casi di violenza ripetuta sono diminuiti da più di 30 a meno del 10 per cento.)
§  Offerta di servizi continuati, a sostegno delle vittime e dei loro figli.
§  Terapia e monitoraggio degli aggressori durante e dopo l’esecuzione della pena.
Il male che si deve raccontare per cancellare la violenza domestica è un libro che descrive la violenza attraverso una serie di storie. Un testo decisamente interessante che va al di là delle stesse intenzioni che lo generano, giacché il lettore non si trova soltanto a concordare sulla necessità di operare d’urgenza per interrompere i circuiti violenti già in atto, riducendo i casi più gravi che culminano con la morte della vittima, quasi sempre una donna, a percentuali notevolmente più basse, ma è indotto inevitabilmente a interrogarsi sul perché la violenza domestica esista. Togliendo dai fattori determinanti, come Simonetta Agnello Hornby ci obbliga a fare,  le disparità di natura economica,
le differenze tra le classi sociali, o quelle dei livelli di istruzione, quali altre caratteristiche restano per spiegare sociologicamente il fenomeno? Una spia utile, se non una spiegazione a tutto tondo, la ritroviamo in una brevissima frase di quel capitolo: “Il desiderio di dominare esula e trascende dall’attrazione sessuale”.
Ripercorrendo le varie storie narrate nel libro, o ripensando ai fatti di cronaca nera che ammorbano le pagine e i siti dei diversi quotidiani nostrani, c’è infatti una sola “variabile” che “non varia”, costituendosi come una costante, causa prima che determina il resto: il desiderio di dominio sull’altro, diciamo meglio sull’altra, dato che nella stragrande maggioranza dei casi è un desiderio di possesso che l’uomo nutre e realizza sulla donna e spesso estende nei confronti dei figli.
Perfino i casi nei quali la violenza inizia con l’insorgere di una gravidanza, oppure con la nascita di un figlio che priva il padre della centralità di attenzioni, avute fin lì in totale monopolio, hanno la stessa matrice esplicativa. La donna non esiste per sé ma in funzione dell’uomo e questo è il dettato universale che ha sostanziato tutte le società patriarcali e che ancora persiste nelle nostre, malgrado alcune modificazioni intervenute.
Che si tratti di musulmane, per le quali il Corano prevede la punizione corporale da parte del marito che viene con ciò stesso abilitato a dominarle; che si tratti di cristiane nate dalla costola di Adamo, mito propagato dalla Bibbia per nascondere che son le donne a generare la vita; che si tratti di etnie d’altro tipo (ricordiamo gli acquisti e le cessioni delle pellirosse da parte dei maschi della stessa popolazione); con l’eccezione di poche comunità a impronta prevalentemente matriarcale, la donna è universalmente pensata come proprietà personale dell’uomo, atta e obbligata a soddisfarne le più svariate esigenze - dalla sessuale, a quella di accudimento quotidiano mediante l’attività casalinga, alla generazione dei “suoi” (his e non her) figli - e quest’idea è tanto profonda ed estesa che va al di là del vincolo matrimoniale, investendo la stessa aspettativa del maschio, che si mostra ai giorni nostri incapace di affrontare perfino l’ipotesi che la sua fidanzata lo lasci, dato che la possiede già come cosa per il fatto di aver posato su di lei il proprio sguardo.
Nelle pagine finali del libro, così scrive Marina Calloni: “La violenza domestica non riguarda più solo la donna nella veste di moglie, legata da matrimonio (il cui omicidio veniva appunto chiamato uxoricidio)” - cosa che la dice lunga su certe faziose resistenze ad accogliere il termine femminicidio per l’omicidio di genere nei confronti della donna, che paradossalmente potrebbe ben essere esteso all’uomo nel caso inverso, esattamente come la scarsa quantità di uccisioni di mariti non ha alterato l’uso del termine uxoricidio per l’uccisione del coniuge maschio (n.d.r.). “Altre figure”, prosegue Calloni, “unite da prossimità al partner violento, possono essere vittime di violenza domestica: conviventi, fidanzate, amanti, membri della famiglia, bambini”.
Questo è un dato sul quale occorre riflettere, perché la possibilità di ridurre la violenza domestica e i casi di femminicidio non passa solo da programmi utilissimi, come quello descritto nel libro, mirati a un intervento inevitabilmente successivo al suo insorgere. Attribuisco al lavoro di Patricia Scotland messo a punto per il Regno Unito ed esportato anche altrove, che ha prodotto una significativa riduzione percentuale dei casi di violenza domestica e di femminicidi, nonché all'introduzione in Italia dello stesso metodo, fatto di interventi specifici minuziosamente coordinati, un peso dal valore inestimabile.
Tuttavia, finché continueremo a pensare che occorra solo intervenire DOPO e non rimuovere l’idea di possesso che genera la violenza sulle donne e qualche volta anche quella sugli uomini, per semplice rispecchiamento del concetto - il potere come prevaricazione sull’altra costituisce un’idea-prassi infettante - non riusciremo a risolvere il problema.
La prevenzione passa attraverso le modifiche dei messaggi di cui si avvalgono le differenti culture per tramandare e rafforzare il dominio e che pertanto non sono uguali dovunque. Stolto pretendere di disconoscere l’incidenza di alcuni solo perché non sono ugualmente determinanti in tutti i Paesi. Ritenere che la lapidazione delle donne - reintrodotta proprio in questi giorni in Iran - non sia anche un messaggio “culturale”, dissuasivo nei confronti delle donne e condizionante per tutta la comunità, solo perché nella maggior parte degli Stati non c’è, costituisce una valutazione miopica, non dissimile da quella che isola l’un fattore di cui si servono le culture patriarcali dall’altro, per proclamare che nessuno di essi ha gran peso.
Non esiste soltanto UN patriarcato, esistono al contrario I patriarcati, di maggiore o minore estensione nelle diverse aree del globo, ciascuno dei quali privilegia alcuni mezzi e non altri per conservare, a dispetto di taluni mutamenti, la propria vitalità distruttiva.
In Italia, come in altri Paesi europei ed extraeuropei, il patriarcato si riconferma nel settore educativo già mediante l’impostazione dei libri di testo, che sancisce una divisione dei ruoli a supporto della supremazia maschile; si riproduce nell’ambiente urbano, extra urbano nonché familiare attraverso l’immagine della donna nei media, sia nelle propagande più evidenti sia in quelle più sottili e nascoste, dove l’informazione sessista è affidata alla posizione o al numero delle figure scelte quale veicoli umani del messaggio; si perpetua attraverso la comunicazione orale e scritta, nello stesso linguaggio quotidiano che ingloba il genere femminile nel maschile nelle lingue flessive, soprattutto nell’uso dei plurali; si proietta “formattandola alla disparità” sulla coppia, mediante i cognomi della famiglia e dei figli, che rappresentano ancora in molti Stati la prima informazione innaturale che riceve ciascun figlio alla nascita.
Nei paesi nei quali sopravvive - e con incredibile tenacia - la patrilinearità del cognome, questo è strumento di forte comunicazione sessista, istituisce la superiorità presunta del maschio e l’inferiorità conseguente della donna, quale soggetto non adatto a fondare e garantire l’identità del figlio nel contesto sociale.
Non si può risolvere tutto con gli interventi sicuramente necessari ma successivi all’insorgere della violenza. Non si può risolvere tutto con mutamenti concettuali pur necessari, come quello dei cognomi dei figli, importante quanto importante è stata in Italia la cancellazione dell’infame distinzione giuridica tra figli “legittimi” e figli definiti “naturali”, sinonimo solo apparentemente più soft di illegittimi.
Bisognerà andare ancora più a fondo e smantellare l’idea di matrimonio come in molte culture è conosciuta, italiana compresa. Sarà certo il mutamento più difficile e che richiederà tempi assai lunghi. Io non dispero che ciò possa accadere, pur consapevole che non vivrò abbastanza per riuscire a vederlo realizzato.
Milano, 24 Febbraio 2013
© Iole Natoli

1 commento:

Iole Natoli ha detto...

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su Femminismi a confronto e laicità. http://femminismi-confronto-work.blogspot.it/2013/06/societa-e-diritto-occorre-riformare-il.html