sabato 4 aprile 2015

L’Âge mûr nié / L'amara vita di Camille Claudel al Teatro Parenti di Milano

MILANO, 10 - 14 marzo 2015 - Teatro Franco ParentiSala Treno Blu - via Pier Lombardo 14

L’Âge mûr nié
di Maddalena Mazzocut-Mis

Regia: Paolo Bignamini
Scene: Francesca Barattini
Aiuto regia: Francesca Barattini
Shantala Faccinetto
Consulenza drammaturgica:
Chiara Pasetti
Con Federica D'Angelo

Foto di Ilaria Triolo


Nata l'8 dicembre del 1864, a Fère-en-Tardenois, in Francia, la scultrice e disegnatrice grafica Camille Claudel, allieva e amante di Auguste Rodin, viene internata in manicomio nel 1913 su richiesta della famiglia, successiva alla morte del padre. Morirà a settantanove anni, il 19 ottobre del 1943.
L’Âge mûr”, che dà il titolo alla piéce, è un’opera in gesso del 1895, realizzata poi in bronzo nel 1902 grazie all’intervento economico del capitano Tissier. In essa vari motivi confluiscono; centrale però, in particolare nella prima versione in gesso, il riferimento a Rodin, l’anziano amante che rifiutava di lasciare per lei Rose Beuret con cui aveva un precedente legame, vissuto come un tragico abbandono.
Se questo accadimento ebbe serie ripercussioni sulla vita della giovane artista, altri elementi, da rintracciare forse nel passato, contribuirono a trasformare una dolorosa separazione in un dramma, generatore di conseguenze malefiche.
Cosa comporta crescere in un ambiente familiare dove i rapporti conflittuali sono quasi costanti, dove il ruolo della donna attribuibile alle figlie è per la madre il proprio - tradizionale - da perpetuare, dove la figlia maggiore manifesta fin dalla più tenera età capacità plastiche infrequenti e mostra un temperamento volitivo al limite dell’aggressività, dove il soggetto con cui questa figlia può identificarsi è un uomo, il padre che la protegge e che la sprona, mentre la madre non la riconosce come simile a sé e la rifiuta?
Arduo identificare in tutto ciò la motivazione profonda che poté condurre la primogenita dei Claudel a rapportarsi, con fiducia inizialmente totale, ad Auguste Rodin, lo scultore che sarà suo secondo maestro e anche amante. È abbastanza plausibile, però, che vi fosse una lacerazione originaria in Camille, una matrice nella quale poterono agevolmente innestarsi gli squilibranti eventi successivi.
Non essere amata a sufficienza - o forse non esserlo affatto - potrebbe aver generato nella bimba una dolorosa esperienza di solitudine interiore, assai simile a un senso di abbandono. Ne potrebbe esser derivata un’ansia esasperata di riconoscimento, non colmabile dalla sola identità artistica e definibile come esigenza di accettazione totale, includente un bisogno di possesso.
Nella biografia curata da Reine-Marie Paris, leggiamo di un forte legame col fratello minore Paul (il futuro autore del celebre L’Annonce faite à Marie e di altre opere), che riuscirà a sottrarsi a fatica alla sua influenza. Azzardato sostenere anche qui che si trattasse di desiderio di dominio dell’una e non, piuttosto, di sofferta percezione di minorità da parte dell’altro, ancora non in età d’indipendenza. In ogni caso, Camille soffrirà per il matrimonio di Paul, che segnerà una svolta definitiva nel rapporto già modificato tra i due.
La società giocava intanto un suo ruolo, ponendo i germi della destabilizzazione futura.
Durante il suo sodalizio con Rodin, la giovane artista ottiene, sì, riconoscimenti ufficiali e commissioni iniziali, ma di non particolare rilievo. Si rende conto d’esser considerata come una fulgida appendice di Rodin, si sente impigliata nella sua orbita, non apprezzata per ciò che intimamente e artisticamente ella è ma solo in rapporto e in relazione ad un altro. E questo pesa, dà un profondo fastidio, disturba. Lo stesso Rodin, pur consapevole delle sue qualità, la tratta come fosse un’allieva. Allorché il rifiuto di Auguste di sposarla infrangerà definitivamente il rapporto amoroso e Camille interromperà la coabitazione trasferendo il suo atelier in altro luogo, la separazione ancora non totale dall’uomo a cui aveva donato se stessa, lasciandogli anche firmare alcune opere di cui forse era l’autrice maggiore, diverrà esperienza di saccheggio, di appropriazione della personalità, di laido furto. «Ora che la collaborazione reciproca si è allentata, che l’affetto è diventato odio, c’è un’immensa disperazione, la certezza di essere stata spogliata della sua energia vitale e del senso stesso della sua vita», scrive Reine-Marie Paris.
Foto di Ilaria Triolo
Sembra che i primi segni di uno squilibrio mentale si siano manifestati a datare dal 1983, dopo la rottura con Rodin, se per squilibrio si intende la ricerca di un quasi claustrale isolamento. A mano a mano che il lavoro di scultura prosegue aumentano i problemi finanziari, scarseggiando sostanzialmente il denaro necessario per poter realizzare le opere; finché Camille smetterà di creare, avvolgendosi nella psicosi insorgente e trasferendo nella coatta creatività del delirio la pulsante e rigenerante energia, dispiegata in precedenza nell’arte.
Morto il padre, la famiglia la fa ricoverare in manicomio.
Ora non soltanto Camille vede ovunque complotti orditi da Rodin contro di lei, ma giunge a considerare l’ex amante come l’artefice effettivo del suo internamento. Probabilmente accentrare su di lui ogni responsabilità dando il ruolo di succube e non di agente determinante alla madre, necessitava alla sofferente psiche per mantenere viva la speranza di potere rientrare un giorno in famiglia, richiesta che fu spesso ripetuta. O, forse, attribuire all’uomo un tempo amato questa specie di sequestro subito era meno doloroso per lei che ascriverlo alla volontà della donna della quale era figlia. Per lungo tempo rifiuterà il cibo preparato da altri, temendo di morire avvelenata.
Osservare con lo sguardo di oggi la vita tormentata di Camille richiederebbe uno sforzo di immedesimazione nei tempi, che non sono fortunatamente più gli stessi benché anche adesso la vita delle artiste sia meno agevole di quella dei loro colleghi; bisognerebbe attivare altresì un buon distacco per comprendere la figura della madre, che avrà avuto anche lei una sua storia e dei condizionamenti personali se, come emerge dalle biografie con chiarezza, sviluppò presto un rifiuto animoso nei confronti di questa sua figlia, così diversa da Louise, la seconda.
Se però ci si vuole occupare di Camille è su di lei che occorre concentrare l’attenzione,   rendendo gli altri elementi di contorno, il padre, la madre, la sorella e il fratello minore, il poeta consegnato alla gloria, Paul Claudel. Occorre dunque riferirsi a loro solo quando è la stessa Camille a evocarli nelle sue lettere, attraverso un’invettiva o più spesso in una richiesta di aiuto, che rimarrà in sostanza disattesa. È questo il taglio dello spettacolo L'Âge mûr nié - Lettere di Camille Claudel, visto al Teatro Franco Parenti di Milano, scritto da Maddalena Mazzocut-Mis, diretto da Paolo Bignamini e interpretato da Federica D'Angelo, che in scena è una dolente Camille immersa nel blu, cupo come il destino che la attende.
La biografia di riferimento è “Correspondance” di Camille Claudel, curata da Anne Rivière e Bruno Gaudichon, pubblicata in Italia da Abscondita Edizioni.
Le parole ora aspre, ora sofferte, ora rassegnate di Camille ci conducono attraverso il suo percorso di donna e di artista, consapevole delle proprie capacità e della propria forza espressiva ma al tempo stesso ripiegata su di sé dall’insogere di una psicosi di cui possiamo solo ipotizzare le cause, senza avere certezza della genesi. Dalla malattia mentale i familiari preferirono, dopo la morte del padre, prendere comodamente le distanze optando per le soluzioni durevoli più drastiche.
Certamente non c’erano cure farmacologiche all’epoca e nemmeno terapie psicologiche tanto affermate e diffuse da permettere di affrontare per quella via un problema di quella portata. Colpisce però l’isolamento cui la famiglia consegnò un proprio membro, il rifiuto del conforto di una visita da parte della madre, la quale contesterà i suggerimenti dati dopo alcuni anni dal medico quando questi, visto il miglioramento della paziente, indicherà come possibile e utile la dimissione di Camille dal manicomio e il ritorno a una vita normale.
Probabilmente la “rispettabilità” familiare “esigeva” il sacrificio perenne di colei che sarebbe stata percepita dagli altri come un’anomala macchia indecorosa, valutazione resa più insopportabile dal contrasto col beneficio riflesso derivante dalla crescente fama di Paul.
Una significativa coproduzione di ScenAperta e di Accademia di Alto Perfezionamento Artistico Musicale "L. Perosi", organizzata in collaborazione con il Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell'Università degli Studi di Milano 
Marzo 2015
© Iole Natoli

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