Una biografia di
ANGELO GILARDINO
ANDRÉS SEGOVIA
L'UOMO, L'ARTISTA
Edizioni Curci
Pagine: 256
Prezzo: € 19,00
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IL MIO UNIVERSO È SOSPESO NEL SUONO
di Iole Natoli
Una bella "pittura" a tutto tondo quella pubblicata di recente da Angelo Gilardino, accurato studioso di Segovia, per le Edizioni Curci di Milano. È la prima biografia in italiano, nata da fatti non occasionali se si considerano due elementi specifici. (prosegui)
Angelo Gilardino è molto noto agli amanti della chitarra classica. È stato un artista-esecutore di fama internazionale sino al 1981, ultimo anno della sua attività concertistica, che ha concusa per poter dedicare più spazio ai suoi interessi di compositore, di docente dei Conservatori di Stato, di ricercatore nel campo della musicologia e, non ultimo, di autore di testi.
Nel 1997, al musicologo vercellese viene affidata dalla vedova di Segovia la direzione artistica della Fondazione Segovia di Linares, città in cui il Maestro andaluso ebbe i natali ma dalla quale andò via molto presto, per il ritorno della sua famiglia a Jaén.
È un incarico cui Gilardino si appassiona, non solo in quanto specialista di musica per chitarra ma altresì a causa della mole di documenti inediti, riguardanti contatti di lavoro e amicali del grande musicista andaluso, nonché le numerose partiture che egli non ebbe ad adottare in vita, benché scritte da diversi compositori per lui.
E infatti non tutti gli autori, di cui taluni molto stimati e validi, erano reputati da Segovia indicati per una sua perfetta esecuzione. Più un compositore era acclamato e indipendente, sia sul piano personale sia artistico, e meno il Maestro lo accettava per sé. Non reputava adatto, in altri termini, chiunque fosse scarsamente adattabile, poco propenso a recepire indicazioni minuziose come quelle che dava invece a Manuel Ponce, il più malleabile tra i compositori incontrati. Col musicista messicano Andrés aveva instaurato un rapporto di amicizia complesso, al limite di una bonaria tirannia che non sconosce gli atteggiamenti “gelosi” e che rivela un temperamento esigente.
Segovia fu, scrive Gilardino, un solitario. Ricostruendo l’infanzia del Maestro, il biografo ci tratteggia un insieme di componenti che possono anche motivare una scelta.
Suggestiva, ma difficilmente provabile, l’influenza che può avere esercitato sull’ancora non venuto al mondo Andrés la vicinanza logistica di un artigiano della chitarra, i cui suoni il futuro maestro potrebbe dunque aver udito mentre era ancora nel grembo materno.
Molto più solida, invece, la descrizione della sua solitudine, del bisogno di un dialogo interiore con qualcosa di non traducibile in concretezze materiali, con l’inafferrabile ma potente voce dei suoni. Un bisogno che nasceva dalla profonda percezione di un vuoto, di un abisso spaventoso in cui perdersi o sul quale e intorno al quale abitare, percorrendo mediante le note gli spazi, in un’incessante passeggiata interiore, compiuta con l’abilità pensosa di un acrobata sospeso su una misteriosissima foresta: sul mistero dell’essere al mondo benché non abbastanza amati, non tanto almeno da non essere stati mai abbandonati.
Mi sono chiesta se nell’interruzione dell’autobiografia di Segovia non vi sia una ragione profonda, legata proprio al suo dramma interiore. Perché il Maestro improvvisamente smette di scrivere? Di che cosa avrebbe dovuto narrare se avesse proseguito nel racconto?
C’è un punto della vita di Segovia che mi sembra abbastanza singolare. Il Maestro, che aveva già patito la perdita per incidente mortale del figlio tredicenne Leonardo, ha un travagliato rapporto con Beatriz, la figlia avuta dall’unione con la seconda moglie, Paquita.
Da premettere che Segovia si interessò sempre, con prodigalità e sollecitudine, delle necessità economiche altrui, che si trattasse della madre ritrovata (sia lei sia il padre lo avevano “scaricato” alla zia materna quando aveva solamente tre anni), della zia suora, delle mogli o di altri. A Beatriz, ad esempio, il padre volle intestare una casa nella quale la figlia e sua madre andarono poi a vivere, dal 1959, a Montevideo.
Beatriz aveva manifestato in precedenza serie difficoltà psicologiche, probabilmente a causa della separazione dei suoi genitori aggravata da una permanenza in collegio. Riavvicinatasi al padre a datare dal 1958, nel 1962, poco dopo la partenza da Montevideo di Segovia che vi era andato per tenervi un concerto, tentò il suicidio.
Ricoverata d’urgenza in ospedale non ebbe il conforto della vicinanza paterna. Benché chiamato immediatamente al telefono dall’avvocato di famiglia Aparicio Mendez, Segovia non ritenne di dover interrompere la tournée nella quale si trovava impegnato con conseguenti implicazioni economiche. Probabilmente, ipotizza Gilardino, non percepì nella sua interezza la gravità del gesto della figlia. Fatto sta che non ebbe modo di intervenire, sempre per impegni concertistici, neanche al matrimonio di Beatriz, avvenuto appena un anno dopo.
Nel 1964 la giovane, in compagnia del coniuge, incontra a Madrid il padre e la giovanissima compagna di lui, Emilita. Nel 1965 muore Paquita, madre di Beatriz ed ex moglie di Andrés. Beatriz in quello stesso momento è lontana, essendosi stabilita in Guatemala; di lei si sa che vive in uno stato di continua frustrazione e disagio. Troppo poco per prevedere il suo gesto? Il 6 agosto del 1967 Beatriz si uccide, ingerendo un’elevata quantità di barbiturici. Il suo corpo viene portato a Montevideo per la sepoltura, ma il padre, pur essendo partito d’urgenza, giunge solo ad esequie avvenute. Alla figlia dedicherà un concerto, cui l’avvocato Aparicio Mendez si rifiuterà però di presenziare.
Torno adesso alla mia domanda iniziale. Fino a che punto avrebbe dovuto dilaniare se stesso Segovia se avesse scelto di continuare a scrivere di sé sino all’ultimo, scoprendo o mascherando i suoi percorsi, analizzando con meticolosità le sue angosce e le sue scelte di libertà personale, le sue generosità e i suoi egoismi, il suo bisogno radicale di non condizionare per nessuna ragione la sua arte - perno della sua sopravvivenza esistenziale - e l’angoscia personale dell’altra, di un’emarginata non riconosciuta abbastanza come tale, di un’altra da sé che ebbe ad essergli tanto profondamente simile per l’abisso di profonda solitudine ma non ebbe a trovare in sé la via d’uscita?
Il discorso qui si fa complesso. Accanto alle indubbie capacità specifiche dell’uomo troviamo una condizione particolare della società di quel tempo. Detto in altre parole, ciò che fu possibile a Segovia padre, difficilmente sarebbe potuto esser possibile a Segovia figlia. Ciò non soltanto per eventuali capacità soggettive diverse, ma perché la differenza tra i possibili piani di vita di un uomo e quelli di una donna era abbastanza rimarchevole allora, probabilmente ben più di adesso.
Proviamo a immaginare un’Andrea Segovia donna, che diviene affermata concertista potendosi dedicare a se stessa dato che i figli sono accuditi dal loro padre, nonché suo marito; un’Andrea che trova in seconde nozze un concertista Paquito che le fa da spalla più che pensare alla propria carriera; che si concede un’avventura parallela con un affascinante e periglioso brasiliano attendendosi che Paquito la perdoni; un’Andrea, infine, che insegnando all’Accademia Chigiana s’invaghisce di un suo giovanissimo allievo, Emilito, il quale sacrifica a lei il suo futuro di concertista o compositore e la sposa, curandola sino all’età di 94 anni. Quest’ipotesi stupendamente egualitaria ha la possibilità di schivare con un minimo di prevedibile successo i colpi del principio di realtà?
Segovia fu, scrive Gilardino, un filosofo, un grande intellettuale musicista. Fu sicuramente un uomo autentico, che di fronte al dilemma tra il mentire in primo luogo a se stesso e il doversi impietosamente lacerare per offrire la propria vivisezione al suo pubblico, imboccò l’elegante via del silenzio, affidando all’impenetrabilità della musica ogni soffio di dolore, di dolcezza, di tenue ed impalpabile speranza che avevano costituito il suo vissuto.
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Milano, 24 Febbraio 2013
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© Iole Natoli
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domenica 24 febbraio 2013
ANDRÉS SEGOVIA / L'UOMO, L'ARTISTA
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