Tra spigolosi frammenti di specchi
Dichiara in un’intervista Rafael Spregelburd di preferire la scrittura che registri l’accadere sul palcoscenico a una che determini a priori la storia e spiega di lasciare spazio sia mentale sia fisico agli interpreti, perché gestiscano come loro più sentono un’azione. Il risultato è un insieme altamente spezzettato, apparentemente privo di un’unità che non sia data dal permanere degli attori in scena o dalla rintracciabilità di un tenue senso.
Probabilmente c’è da invertire i termini del discorso. Se si vuole rappresentare il mondo d’oggi con la sua frammentazione permanente, sembra dirci con questo suo lavoro l’autore, non si può più procedere altrimenti. Non LA STORIA ma plurime schegge di storie, nessuna delle quali possa porsi come totalità di un personaggio, attestazioni di attraversamenti molteplici che intessano la “narrazione” teatrale.
I personaggi che s’intersecano e interagiscono - o che al contrario non interagiscono affatto - son tanti. Una donna incaricata di affittare o vendere un appartamento, di cui tace una particolarità all’interessata: da una sua scala interna e ripidissima è precipitato un uomo che, già morto, pare non abbia abbandonato l’ambiente. Poi c’è il soggetto in questione, un uomo-ombra che non si è reso conto del trapasso e non si accorge che, quando parla con altri, tutti costoro se viventi lo ignorano: coglie soltanto scampoli di frasi che adatta parzialmente ai suoi ricordi.
Abbiamo anche la moglie del defunto, che per una complessa questione ereditaria ha bisogno a ogni costo di una chiave; quindi, la figlia della donna e alcune amiche/compagne di un corso, una coreografa interamente assorbita da sé, una medium che, interpellata per scovare l’oggetto nascosto, si trova a dover fronteggiare un pretendente dalle richieste assai poco affidabili e infine lei, la protagonista assoluta, LA CHIAVE, che resa oggetto di una ricerca devastante e frenetica sfugge a ogni possibilità d’identificazione.
A togliere la cifra comica all’insieme provvede quale comun denominatore la paura. Perché questo è pur sempre un mondo dei morti anche quando defunti non si è, una realtà di burattini viventi che si arrabbattano in una cecità generale.
Il gioco è abile e denota l’assenza d’ogni rapporto interpersonale profondo, che conduca al di là delle apparenze. Quella chiave è in buona sostanza un enigma, che resta interno alla mente di chi spasmodicamente la cerca sino al punto da non venire nemmeno relazionata all’oggetto effettivo, trovato da un personaggio casualmente.
Torna alla mente il noto seminario di Lacan sulla “Lettera rubata” di Poe, riportato nel testo cult “La cosa freudiana”. Anche qua esiste un gioco di sguardi: di chi sa ma non può intervenire - lì la Regina, qui il defunto - e di chi ha tutto sotto gli occhi e non vede, ma soprattutto si coglie un gioco di significati e significanti, che s’intrecciano e si aggrovigliano tra loro senza mai giungere a esser liberati.
Un bel lavoro, reso con divertita maestria da Ronconi, che ha firmato già un altro testo di Spregelburd, posto in scena lo scorso anno: La modestia. Duttili ed estremamente efficaci gli attori, appropriate scene, costumi e luci, belli i suoni.
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