Dice un proverbio che gli estremi si toccano. Il postulato sembra avere del vero nel caso del direttore d’orchestra Ennio Nicotra, che ha reso due città decisamente antitetiche per clima, la solare Palermo e la gelida San Pietroburgo, poli contigui della sua vita e della sua attività. Lo incontriamo questo luglio in Sicilia, in una sera di regolare caldo palermitano.
Ennio, è noto a tanti che sei un bravissimo direttore d’orchestra che si occupa molto della didattica.
Penso però che alla gente possa piacere conoscere qualche notizia in più di te persona.
E allora: “chi” sei, da dove spunti, che fai? C’era il nonno che aveva il violino? No. C’era un chitarrista per strada che suonava e che ti ha tolto il sonno? Nemmeno. Insomma, quando hai iniziato, come e perché?
Ho sempre nutrito la passione per la visualizzazione della musica, ritengo che sia una cosa innata. Il nonno non suonava il violino, mia madre aveva una bella voce e cantava bene ma musicisti in famiglia proprio no. Già verso i 5 anni frequentavo i concerti, questo sì, andavo al Teatro Biondo, agli Amici della Musica e a vedere l’Opera al Teatro Massimo.
Fin da piccolissimo, quando ancora non sapevo leggere e scrivere, ho avvertito il desiderio di rendere visibile la musica.
In che modo manifestavi questo desiderio?
Mettevo su un giradischi le incisioni che sceglievo, individuandole dai ritratti dei compositori, e cercavo con le mani di rendere visibile la musica, la melodia più che il ritmo, di cui fra i tre e i quattro anni non avevo ancora cognizione. Ci perdevo moltissimo tempo. Quando mi chiedevano “Cosa vuoi fare da grande?”, rispondevo: “Pilota d’aereo e direttore d’orchestra”.
Per un po’ l’ho anche fatto il pilota d’aereo; ho frequentato una scuola specifica, anche se poi ho abbandonato prima di conseguire il brevetto. Era una bella sensazione volare su quegli aerei piccoli, non gli ultraleggeri di oggi che mi appaiono precari ma i PIPER, i CESSNA, che hanno una bella carrozzeria, una fusoliera ben solida.
Rimaneva la passione per la musica classica ma, occupato dalla scuola, avevo dimenticato quell’aspetto gestuale. Poi, in vecchiaia, sui 12 - 13 anni, mi sono iscritto al Conservatorio di Palermo.
“In vecchiaia”? La gente di solito s’iscrive prima?
Sì. In Russia, poi, ci si iscrive ancora prima, ci sono scuole per bambini di quattro - cinque anni. Lì iscriversi intorno ai 12 - 13 come pianista è impensabile. Da noi tutto si chiama Conservatorio e ci trovi anche ragazzini di scuola media. In Russia, invece, gli studenti finiscono a 17 anni il loro Liceo musicale, che corrisponde al nostro Conservatorio, e poi entrano nel loro Conservatorio dove fanno 4 anni più il dottorato. Io mi diplomai a Palermo sui 24 - 25 anni. Non nutrivo molte speranze perché ero già grande, ma nell’88 venne in città un direttore russo con cui ebbi modo di parlare. «C’è una sola persona al mondo», affermò, «che può dirti se sei portato o meno per la direzione d’orchestra e che può metterti in condizione di dirigere in poco tempo: Ilya Musin a San Pietroburgo». Mi dette il numero telefonico di Musin e, poiché allora si poteva frequentare solamente con una borsa di studio, mi scrisse anche una lettera di presentazione per il Ministero degli Esteri. «Fai in fretta perché Musin ha già 86 anni», mi raccomandò.
E tu non te lo facesti ripetere due volte.
Non pensavo ad altro. Arrivare a San Pietroburgo era una cosa impossibile per l’epoca. L’unica via usuale era data dai viaggi organizzati, che in inverno mancavano. Così m’iscrissi a un corso di lingua russa a Mosca, della durata di un mese, per poter andare un giorno a S. Pietroburgo e presentarmi all’esame, dato che per prima cosa Musin avrebbe dovuto accettare la mia candidatura. Mi trovai a dover dirigere, senza che lo avessi mai fatto prima. La cosa più misteriosa è che, quando vidi Musin far lezione e dirigere, trovai un’immediata risposta alle domande che mi ponevo da bambino. Fu come un riaggancio a 25 anni prima, un flash. Predestinazione? Non saprei. Comunque sia, il Maestro mi prese.
Il periodo di studi è stato facile?
Il primo anno fu una fase di crisi. Non riuscivo a capire per qual motivo Musin mi avesse ammesso in classe, dato che cominciavo da zero e tante altre persone, mi aveva detto la moglie, avevano chiesto inutilmente dall’estero di potere studiare con lui. Mi tormentai per un pezzo, ipotizzando qualche raccomandazione a me ignota, finché a giugno del ‘90, prima delle vacanze, andai a salutare il Maestro e gli chiesi una spiegazione a bruciapelo.
«Quando siete venuto a fare l’esame», lì ci si dà del voi, «non avete concluso nulla. Niente. Zero», mi rispose. «E allora perché mi avete preso?», domandai, frastornato.
«Perché avete la dote non comune di sentire la musica e saperla trasmettere agli altri. Vi ho preso per questo e son contento di non essermi sbagliato».
Uscii da quel colloquio rincuorato, ma non del tutto convinto. Devo però riconoscere che quest’aspetto, grazie allo studio con lui, per me non ha più segreti. Chiaramente la direzione d’orchestra non consiste solamente nell’usare le mani, presuppone un grande lavoro e ho seguito, infatti, anche altri corsi. Muovere correttamente le braccia però è fondamentale, perché è mediante quelle che tu comunichi con l’orchestra.
Quel periodo è stato una bella esperienza di vita, che mi ha fatto vedere tutto con altri occhi. C’era la perestroika e me la presi in pieno. Fu bello. O meglio: fu brutto. Se avessi saputo com’era una crisi economica vera, non ci sarei mai andato. In Italia avevo sentito parlare di crisi da quando ero nato: “la crisi, la crisi, la crisi, sorpasso in frenata”. Arrivai là pensando “Eh, tanto ci sono abituato!”. Ma quando mai! La crisi vuol dire che nei negozi non c’è niente da mangiare, che sono v u o t i ! Le sole cose che vi abbondavano erano bottiglie d’acqua minerale imbevibile, che quando le aprivi emanavano puzza di zolfo. Non immagini cosa sia una crisi vera non avendola mai vissuta in Italia.
Quelli che hanno fatto la guerra forse lo sanno…
Mi ricordo che una volta un mio amico, oggi direttore del Kirov, m’invitò a casa sua. I pranzi russi non sono come da noi, tu vai alle cinque e mangi. Arrivai e trovai pane e salame. E io, sapendo che non c’era mai niente nei negozi, “Dove l’hai preso questo salame?”, gli chiesi al colmo dello stupore e della gioia. «Ah, guarda, ho girato tutto il giorno per riuscire a trovare questo pezzo!». Era una conquista, credimi, non stavi a chiederti che tipo di salame fosse, qualunque tipo e già era una festa! Dovevi passare la giornata a cercarti il cibo per sopravvivere.
Certe volte le persone si mettevano in fila per ore davanti al negozio di alimentari, senza sapere se poi avrebbero trovato tutto esaurito. Mi ricordo che passai il Capodanno del ‘90 girando, con 12° sotto zero, alla ricerca di un tozzo di pane. Solamente nel tardo pomeriggio trovai un panificio aperto - immaginati la fame, con 12° sotto zero! - e comprai due pagnotte. Una me la sbranai per intero sul tram, incurante delle mani sporche, e l’altra metà me la portai a casa.
È stata dura così per l’intera durata della tua permanenza?
No. Dopo quasi un anno, ebbi la fortuna d’incontrare un personaggio, un vecchietto morto un paio di anni fa: Victor Vladimirovich, un ingegnere che faceva il tassista non ufficiale. Lo fermai per strada: era normale fermare le macchine per andare da qualche parte, a pagamento, ovviamente. Poi abbiamo fatto amicizia.
Diventò una specie di nonno adottivo e mi portava anche al mercato con un grosso vantaggio per me: essendo invalido, in quanto aveva una protesi, non doveva mettersi in fila nei negozi e questo mi evitava di sorbirmi un’ora di coda, per poi scoprire che non c’era più niente...
Nel frattempo che hai fatto?
Mentre studiavo ho tenuto concerti anche fuori. Mi pagavano il viaggio e la permanenza, l’onorario era modesto, però avevo la possibilità di muovermi e fare pratica. Ho visitato posti molto belli. Tra questi Kislovodsk, che vuol dire “acque acide” ed è un famosissimo centro termale del Caucaso, con la seconda orchestra per anzianità della Russia, dacie presidenziali e soprattutto con un particolare microclima. Atterri all’aeroporto di Mineralnye Vody in mezzo alla nebbia, prendi il pullman, sali sulle montagne e all’improvviso ti ritrovi in primavera; esci da lì per tornare indietro e… la nebbia!
In occasione d’una ricorrenza della rivoluzione d’ottobre, ho diretto un concerto all’ex Simbirsk, chiamata oggi Ul’janovsk in omaggio a Lenin che vi nacque. Su una collinetta sorge il Museo che gli è dedicato, un enorme cubo di marmo bianco, grande più o meno quanto il Ministero degli Esteri Italiano, che oltre alla sua casa natale contiene sale da concerto, biblioteche, piscine. Di notte lo illuminano (o illuminavano, non so), generando una forte voce di spesa.
Ho diretto anche a Ekaterinburg, una città che per pochi chilometri è già Asia. Vicino alla filarmonica c’era la casa - oggi un campo vuoto - dove furono uccisi i Romanov. Fu abbattuta perché non diventasse un luogo di riferimento e di culto.
Sei stato in Russia un bel po’, come mai sei tornato?
A Palermo risiedo ma a San Pietroburgo ho sempre un’abitazione. Nel 1996 ho cominciato a insegnare in Conservatorio in Italia. Tengo un corso regolare a Perugia, ma vado sempre in Russia due o tre volte all’anno per una Masterclass. Sono rientrato in maniera più o meno stabile nel 2003, dopo che è nata mia figlia, per fattori climatici principalmente: San Pietroburgo in inverno è fredda. A volte penso che potremmo ristabilirci per un anno intero là, per dar modo alla bimba di frequentare la scuola, e che io potrei venire qua per le lezioni.
Perché ti sembra preferibile?
A San Pietroburgo ci sono parecchie iniziative per bambini. A Natale, Babbo Natale - quello della Finlandia con le renne! - attraversa la Prospettiva Nevsky: scendiamo in strada e lo vediamo passare. Al Kirov e in altri teatri ci sono spettacoli per i piccoli, molto più che a Palermo. Che fanno i bimbi qua? Si abbrutiscono davanti alla televisione.
Quindi ti sei “stabilizzato” in una sorta di mobilità permanente…
Sì. Il circuito include anche Madrid, dove sono già stato per due Masterclass e dove tornerò a breve. Una volta ho diretto presso la Fondazione Carlos de Amberes, che risale al 1494 e che è situata adesso nella Calle Claudio Coello, nota per l’attentato dell’ETA che provocò la morte di Carrero Blanco, capo del governo franchista e delfino di Franco.
Parliamo del libro che hai pubblicato anni fa e che adesso è uscito in una nuova edizione quadrilingue.
Facendo l’assistente di Musin per tre anni a Siena, all’Accademia Chigiana, avevo notato come i ragazzi difettassero quasi sempre delle basi, del sapere come si dà un attacco, delle cose essenziali. Cominciai allora a tradurre in italiano Tecnica della direzione d’orchestra di Musin, ma ben presto mi resi conto dei limiti: lo stile alquanto letterario ne avrebbe ridotto la possibilità di comprensione, i costi di traduzione per circa 400 pagine sarebbero giunti alle stelle e, in più, descrivere i gesti non sarebbe stato adeguato allo scopo. Una materia che si basa sul movimento necessita di visualizzazione e la presenza di qualche disegno mi appariva del tutto insufficiente. Così, basandomi sull’insegnamento diretto e sul libro del Maestro, decisi di fare una sintesi dei principi di base e di affiancare al testo un video che mostrasse il gesto, che rendesse comprensibile visivamente ciò che è corretto e ciò che non lo è, avvalendomi dell’esecuzione pianistica di Antonio Ballista e di Bruno Canino e di una grafica esemplificativa.
Pensi di scrivere qualcos’altro sul piano didattico?
C’è l’idea di fare un secondo livello, ma per questo bisognerebbe coinvolgere un’orchestra e i costi sarebbero notevoli.
Non ci sono altri sistemi d’insegnamento che utilizzino video, al momento? Altri lavori di natura analoga?
No. Al momento non c’è nessun lavoro con testo, video e grafica oltre al mio. È il più usato al Conservatorio “Nikolaj Rimskij-Korsakov” di San Pietroburgo. Mi hanno scritto dal Messico, dalla Nuova Zelanda, dal Cile, dal Sudafrica. L’altra volta ho visto un avviso, credo messicano: “Urge el manual del maestro Nicotra”. Urge. Io dico sempre: prima di Musin c’erano le scuole tedesca, canadese, italiana, austriaca... Musin è al di sopra di tutto ciò, perché ha creato un codice che prescinde dalla parola e si affida al gesto preciso, univoco, che tutti possono comprendere, perché lo vedono e la visione è un linguaggio universale.
Palermo, luglio 2010 © Iole Natoli
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